venerdì 16 marzo 2012

Americani a Firenze


Villa Machiavelli era la casa dei miei nonni materni: Edward e Theodora Hollyster Vail Chamberlain. Si trovava a Maiano vicino a Firenze. Quando era viva la mamma, ci passavamo molto tempo, ma ero troppo piccola per ricordarmi di quel periodo. Poi, ogni anno con mio fratello Marco, passavamo alcuni mesi d'estate. Nel giardino crescevano in aiuole simmetriche bordate di bosso nano fiori dai colori pastello i cui profumi, sopratutto la sera, raggiungevano la grande terrazza della camera dove dormivamo noi bambini. Sul termosifone dormiva rama, un gigantesco gatto birmano che con il rosso degli occhi leniva il buoi della notte. Vialetti a ghiaino creavano il disegno d'un quadrato perfetto al cui centro troneggiava la grande fontana circolare in pietra bianca dove mille goccioline illuminate dal sole piovevano sulle ninfee rosa e bianche. Eravamo follemente attratti dai pesci giapponesi che vi nuotavano e una volta Marco ci è perfino finito dentro, sporcandosi tutto. La grande serra proteggeva il giardino dal vento che scendeva da Vinciliatta, era uno dei miei rifugi preferiti. Davanti ai miei occhi sbocciavano le peonie. Un altro era la grotta del fauno, luogo ideale per andare a fantasticare al riparo da sguardi indiscreti, antro buio tutto ricoperto di sassi, tappezzato di capelvenere dalle cui foglie l'acqua scendeva come rugiada riempiendo di freschezza i caldi pomeriggi estivi. Sopra la grotta si trovava il belvedere affacciato sul viale in lieve pendenza, pavimentato con ciottoli di fiume e bordato da pini marittimi carichi di pinoli.

Per gli intellettuali americani recarsi a Firenze, la Boston d’Italia, era come un pellegrinaggio verso la bellezza che spesso si trasformava nella decisione di prendere residenza permanente nelle prestigiose dimore della zona. Mio nonno era amico di Bernard Berenson, nostro vicino, e un culto domenicale era la colazione a I Tatti. La domenica era un giorno particolare: col nonno andavo agli Uffizi o alla Cappella Medici dove potevo passeggiare da sola e dialogare con i miei quadri preferiti. Il retro dei ritratti dei duchi di Montefeltro di Piero della Francesca mi sembravano la passeggiata di Vinciliata. Seguiva poi la colazione da Berenson e io portavo sempre un cestino di lamponi raccolti lungo il pendio che confinava con la sua proprietà. Il nonno andava in macchina mentre scivolavo lungo la slopa con il mio cestino ben sollevato e arrivavo dopo l'aperitivo.

Ero una bambina e mi avevano insegnato di rispondere solo se interrogata. Per tutto il tempo i grandi parlavano tra di loro e io aiutavo Nichi Mariano a servire il caffè.

Una volta seduta, Uncle Joe (così chiamavo Berenson) iniziava a chiedermi cosa avevo visto e perché mi era piaciuto. Questa era la parte più divertente. Dal salotto una porta si apriva su uno stanzino pieno di scatole con fotografie in bianco e nero della pittura italiana, foto che ho consultato quando ho vinto un concorso dopo la licenza liceale, che mi ha permesso di studiare con Longhi. Ero avvantaggiata perchè potevo mettere le mani nelle famigerate scatole. Col risultato di far far la pace tra Berenson e Longhi che litigavano per le perizie dei quadri!

Un altro personaggio al quale sono affettivamente molto legata è John Singer Sargent, che dopo aver ritratto Isabella Stewart Gardner, figlia del fratello di mia bisnonna, fece un bellissimo quadro anche alla nonna che ancora oggi mi fa compagnia.

È stata una grande emozione ricevere dalla Marsilio il catalogo della mostra Americani a Firenze (Palazzo Strozzi, 3 marzo – 15 luglio) che mi ha fatto rivivere la mia magica infanzia.









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