mercoledì 18 aprile 2012

IL MIO PORTA CAPPELLI BUFFI






Ne la Nuova Venezia del 14 aprile leggo che finalmente, a opera della Fondazione Venice in Peril diretta con tale grinta ed efficienza da Lady Francis Clarke, alle Gallerie dell’Accademia sarà allestita una nuova sala canoviana per farci vedere i preziosi bozzetti di terracotta restaurati che per troppo tempo hanno dormito nei depositi.



Canova di Possagno fa parte dei miei ricordi antichi.


Mio fratello era in collegio dai Cavanis e quasi tutte le domeniche andavo a trovarlo con Zia Marta. La zia era scultrice, un mestiere molto forte per una donna;
di ispirazione canoviana è la sua Medusa Pontina esposta alla Biennale
del 1935. Andare a trovare mio fratello era una scusa per fare la passeggiata al mausoleo da cui si godeva il paesaggio sottostante non ancora assassinato dalle miriadi di capannoni di fabbriche che, anche se abb
andonati, continuano a deturpare il paesaggio. Speriamo che caschino presto da soli.Questo non bastava, andavamo sempre a visitare la gipsoteca così bella allestita da Carlo Scarpa, che poi è diventat
o ilmio professore amico quando studiavo architettura. Ma la goduria era la casa di Canova dove, nel soggiorno, c’era un mobile con degli enormi cassetti con le tempere delle danzatrici, talmente affascinanti che mi dimenticavo perfino del mangiare, troppo impegnata a rovistare.

Le meravigliose tempere rimarranno alla luce del sole fino al 30 settembre grazie alla mostra inaugurata il 2 marzo a Possagno. Leggo nell’introduzione del catalogo della mostra che Palacio Gonzales ha ritrovato l’originale della scultura che io ammiravo nella collezione dei gessi.



Io ho avuto la fortuna di abitare fino a qualche anno fa nella casa che era del Cicognara che è stato il primo critico ad occuparsi della figura di Canova, talmente legato a lui che lo scultore gliè morto tra le braccia. Quando ho comprato la casa ho visto sopra gli archi delle scale una scultura che mi ricordava Canova ma completamente ricoperta di ridipinture. Mi sono accorta che era bella solo col mio solito sistema: adoperando lo sputacchio e grattando ho sentito lo splendore del gesso originale, occhio che ho approfondito fin da bambina facendo da servidor nello studio di Zia Marta nella vecchia casa di Pieve. Ho fatto subito ripulire la scultura che ricorda la Testa di Clio (o Calliope) del Musée Fabre di Montpellier e quella conservata alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti a Firenze. Non ho però trovato il gesso a Possagno, forse non ho fatto una ricerca abbastanza scientifica, la mia ignoranza è crassa! La testa mi accompagna dovunque facendo da supporto ai miei buffi cappelli.





venerdì 30 marzo 2012

ELIOTT ERWITT ALLA CASA DEI TRE OCI, GIUDECCA 30 marzo – 15 luglio


Il 30 marzo si è inaugurato il restauro della Casa Tre Oci con la mostra di Elliot Erwitt. L’edificio è opera dell’artista MarioDe Maria, nato a Bologna il 9 settembre 1852. Conclusi glistudi visita l’Esposizione Universaledel 1878 dove scopre l’intellighenzia francese del periodo. Dopo varie mostre a Londra, Monaco e Berlino nel 1890 sposa la pittrice Emilia Voigt; un anno dopo nasce il figlio Astolfo e tutta la famiglia si trasferisce a Venezia. Tra 1912 e 1913 realizza la Casa Tre Oci alla Giudecca, in cui innesta sul tradizionale prospettodel fondaco le cadenze di un neogotico ormai perfettamente amalgamato all’art nouveau. Vi muore nel marzo del 1924.

La mostra Personal Best, realizzata da Erwitt, consta di una selezione di 140 fotografie istantanee frale più interessanti. Erwitt fa parte dal 1953 dell’agenzia Magnum, fondata da Henri Cartier-Bresson e Robert Capa.

"Nei momenti più tristi e invernali della vita, quando una nube ti avvolge da settimane, improvvisamente la visione di qualcosa di meraviglioso può cambiare l’aspetto delle cose, il tuo stato d’animo. Il tipo di fotografia che piace a me, quella in cui viene colto l’istante, è molto simile a questo squarcio nelle nuvole. In un lampo, una foto meravigliosa sembra uscire fuori dal nulla".


Nato a Parigi nel 1928 da una famiglia russa di origini ebraiche, Elliott Erwitt trascorre l'infanzia in Italia e si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti nel 1939, prima a New York e poi a Los Angeles. E' diventato un'icona della fotografiamondiale fotografando personaggi come Jacqueline Kennedy, Marilyn Monroe, Che Guevara, Richard Nixon, e in fine Jack Kerouac: individuare il suo ritratto nella mostra ha riaperto la mia vita a San Francisco durante il 1959. Lavoravo come interior designer a Fisherman Wharf e passavo l’ora di pausa pranzo nella vicina libreria dove si scendeva con una scala a chiocciola. Proprio lì ho scoperto i libri sulle minoranze etniche degli Stati Uniti.

Un giorno vedo scendere dalla scala un fusto: è Kerouac il quale mi racconta delle passeggiate nei Greyhound,New Mexico e negli stati del confine con il Paese facendomi venire la voglia di farlo anche io, cosa che hofatto.I pullman erano ancora divisi ametà, bianchi da una parte e neri da un’altra. Io mi sedevo a metà, vicino a una Mommy che mi riempiva le orecchie di teneri blues. A lui devo una delle più interessanti esperienze degli Stati Uniti, così lontani dal mio mondo. Una sera sono stata invitata con la mia amica Lisa Popper a sentirlo suonare lachitarra nel negozio e non ho mai più sentito suonare una chitarra in modo così affascinante.


venerdì 23 marzo 2012

Davide Busato, I Serial Killer della Serenissima, Assassini, sadici e stupratori della Repubblica di Venezia. Marzo 2012, Helvetia Editrice


Abito a piano terra, affacciata sulla salizada e sul campo dove le mie piante si sono beccate una terribile batosta dall’improvvisa gelata di quindici giorni fa, giunta dopo una nebbiosa settimana di fine pioggerellina. Il maltempo ha fatto scoppiare i tronchi delle mie piante che si erano appena svegliate dal lungo letargo invernale: come un serial killer ha massacrato i miei limoni, le arance amare, i gelsomini, le camelie, le peonie, i mirti, le rose rampicanti e le clematis. L’unica sopravvissuta è la Lanocera Japonica, una forza della natura che incornicia la porta e gran parte della facciata coccolandomi con il suo delizioso profumo.

Tutte le mattine vengo svegliata dal tonfo della posta finita sul pavimento, infilata nelle fauci della buca delle lettere dalle mani esperte del postino, che finito il giro viene a bere il caffè con i biscotti fatti da me.


Uno snello libricino con il gobbo di Rialto in rilievo attira subito la mia attenzione: si tratta de I Serial killer della Serenissima, Assassini, sadici e stupratori della Repubblica di Venezia che, come segnalato ne La Nuova, viene presentato oggi alla Feltrinelli di Mestre, luogo molto simpatico con ottimo Cabernet franc e deliziosi stuzzichini dove un mese fa ho presentato la mia ultima fatica Verde Venezia, i giardini della città d’acqua.


Il libro di Busato è divertente, gronda sangue ben ripartito fra donne e uomini, frutto di accurate ricerche nell’inesauribile miniera dell’archivio di stato di Venezia, dove da ragazzina ho trovato un sacco di cose nel reparto delle Mani Morte, allora arato solo da me e da Don Niero. Ricordo il tanfo provocato dagli escrementi dei gatti in calore, preziosi custodi delle scartoffie che da sempre le hanno salvate dall’ingordigia dei topi che vi regnavano sovrani.

Ancora oggi vivo di rendita grazie a quel fantastico materiale raccolto tanto tempo fa per i miei libri e i miei articoli.

I Serial killer della Serenissima mi fanno scoprire la sanguinaria Veneranda da Sacile, Daniel Lanza, maestro di francese e di delitti durante il carnevale, Marcantonio Brandolini, l’abate stregone in fregola di avvelenamenti, il rapimento della bella Angela Lonardi, e una svariata fauna di personaggi descritti così bene da farmeli risuscitare davanti e divorare il libro che ho già finito. Speriamo di non svegliami questa notte con gli incubi. Confesso, non ho mai messo il naso nei fondi del Consiglio dei Dieci e della Quarantia Criminal trattenuta da un profondo rispetto condito di paura.

Davide Busato, ricercatore storico, ci regala alcuni tra i più efferati delitti della storia di Venezia in un libro davvero ben curato, ricco di documentazioni precise come le mappe che riportano i luoghi dove sono accadute le efferatezze e sepolti i cadaveri smembrati, compreso il pozzo di San Trovaso dove venivano gettati i corpi delle vittime.

Solitamente quando restauro i giardini la prima cosa che faccio è far aprire i pozzi per poter raccogliere l’acqua piovana e annaffiare le piante: spero di non trovarci dentro i residuati di tanto macello! …Fino ad ora sono stata fortunata…


venerdì 16 marzo 2012

Americani a Firenze


Villa Machiavelli era la casa dei miei nonni materni: Edward e Theodora Hollyster Vail Chamberlain. Si trovava a Maiano vicino a Firenze. Quando era viva la mamma, ci passavamo molto tempo, ma ero troppo piccola per ricordarmi di quel periodo. Poi, ogni anno con mio fratello Marco, passavamo alcuni mesi d'estate. Nel giardino crescevano in aiuole simmetriche bordate di bosso nano fiori dai colori pastello i cui profumi, sopratutto la sera, raggiungevano la grande terrazza della camera dove dormivamo noi bambini. Sul termosifone dormiva rama, un gigantesco gatto birmano che con il rosso degli occhi leniva il buoi della notte. Vialetti a ghiaino creavano il disegno d'un quadrato perfetto al cui centro troneggiava la grande fontana circolare in pietra bianca dove mille goccioline illuminate dal sole piovevano sulle ninfee rosa e bianche. Eravamo follemente attratti dai pesci giapponesi che vi nuotavano e una volta Marco ci è perfino finito dentro, sporcandosi tutto. La grande serra proteggeva il giardino dal vento che scendeva da Vinciliatta, era uno dei miei rifugi preferiti. Davanti ai miei occhi sbocciavano le peonie. Un altro era la grotta del fauno, luogo ideale per andare a fantasticare al riparo da sguardi indiscreti, antro buio tutto ricoperto di sassi, tappezzato di capelvenere dalle cui foglie l'acqua scendeva come rugiada riempiendo di freschezza i caldi pomeriggi estivi. Sopra la grotta si trovava il belvedere affacciato sul viale in lieve pendenza, pavimentato con ciottoli di fiume e bordato da pini marittimi carichi di pinoli.

Per gli intellettuali americani recarsi a Firenze, la Boston d’Italia, era come un pellegrinaggio verso la bellezza che spesso si trasformava nella decisione di prendere residenza permanente nelle prestigiose dimore della zona. Mio nonno era amico di Bernard Berenson, nostro vicino, e un culto domenicale era la colazione a I Tatti. La domenica era un giorno particolare: col nonno andavo agli Uffizi o alla Cappella Medici dove potevo passeggiare da sola e dialogare con i miei quadri preferiti. Il retro dei ritratti dei duchi di Montefeltro di Piero della Francesca mi sembravano la passeggiata di Vinciliata. Seguiva poi la colazione da Berenson e io portavo sempre un cestino di lamponi raccolti lungo il pendio che confinava con la sua proprietà. Il nonno andava in macchina mentre scivolavo lungo la slopa con il mio cestino ben sollevato e arrivavo dopo l'aperitivo.

Ero una bambina e mi avevano insegnato di rispondere solo se interrogata. Per tutto il tempo i grandi parlavano tra di loro e io aiutavo Nichi Mariano a servire il caffè.

Una volta seduta, Uncle Joe (così chiamavo Berenson) iniziava a chiedermi cosa avevo visto e perché mi era piaciuto. Questa era la parte più divertente. Dal salotto una porta si apriva su uno stanzino pieno di scatole con fotografie in bianco e nero della pittura italiana, foto che ho consultato quando ho vinto un concorso dopo la licenza liceale, che mi ha permesso di studiare con Longhi. Ero avvantaggiata perchè potevo mettere le mani nelle famigerate scatole. Col risultato di far far la pace tra Berenson e Longhi che litigavano per le perizie dei quadri!

Un altro personaggio al quale sono affettivamente molto legata è John Singer Sargent, che dopo aver ritratto Isabella Stewart Gardner, figlia del fratello di mia bisnonna, fece un bellissimo quadro anche alla nonna che ancora oggi mi fa compagnia.

È stata una grande emozione ricevere dalla Marsilio il catalogo della mostra Americani a Firenze (Palazzo Strozzi, 3 marzo – 15 luglio) che mi ha fatto rivivere la mia magica infanzia.









giovedì 15 marzo 2012

I GORILLA DI MONTAGNA

Il mio caffè a Rwobero


Ho abbonato mio figlio Paolo a National Geographic il giorno in cui è nato e anche per me quel magico giornale è una consolazione nelle mie ore di pausa.

Nel numero di novembre 2011, a pagina novantaquattro, c’è un articolo che parla dei gorilla di montagna: mi ha aperto un flash sulla mia vita di ultima colonialista a Rwobero, Kivù, ex Congo Belga, dove ho introdotto su cinquanta ettari la varietà di Blue Mountain Kenya che avevo contrabbandato dall’Uganda nascondendola nel bagagliaio della mia Volkswagen.

Avevo piantato le piantine nella pepigner a un metro di distanza l’una dall’altra e una notte di plenilunio la mia guardia del corpo, i miei cinque bull terrier, mi svegliano facendo una gran cagnara. Tutti abbaiavano, compreso Mustique, il mio preferito, che in teoria doveva dormire per terra sullo stuoino, ma che in realtà s’infilava nel letto tra me e il muro facendomi cascare.

Anche quel letto ha una storia interessante: smontato, mi seguiva da per tutto, oggi è il sofà della mia casa e un tempo era il letto di campo di mio trisnonno, ufficiale nella campagna napoleonica in Alta Italia.

Sentendo tutta quella confusione corro fuori, chiamo lo zamo Patamù, che se ne stava chiuso nel suo casotto quando i cani erano liberi in segno di “rispetto”, insieme andiamo a vedere cosa succede.















La piantagione si stendeva su un dosso di collina affacciato su una distesa di matete che confinava col Parco Alberto. Nella stagione delle piogge gli elefanti salivano sulla collina, ricordo che una volta nel giro di una notte mi hanno divorato tutte le piantine di caffè! Per ovviare all’inconveniente, ho pensato bene di dare il terreno circostante ai miei lavoratori affinché vi coltivassero la loro manioca: 50 di essi erano cannibali col dentino aguzzo, ero andata a prenderli sulle pendici del vulcano Mikeno. In questo modo gli elefanti cercavano di mangiare la manioca ma venivano scacciati, salvando il mio caffè.


Grazie alla terra vulcanica, quella zona era molto fertile, per cui tutto cresceva in un modo incredibile, bastava annaffiare. L’acqua era l’unico vero problema: me ne serviva tanta, anche per lavare le ciliegine del caffè in modo da poterle poi seccare al sole sulle kitande. Sono dovuta andare a prendermela in una sorgente piuttosto lontana attraversando una foresta impenetrabile; malgrado la negazione e le proteste del mio stregone, ho creato una strada in pendenza in modo da poter fare arrivare l’acqua alla piantagione. Maledetta quella volta.

Dopo essere stata via per un periodo in perspection nella foresta di Stanley (quelli del governo venivano a studiare i terreni perché era tutto una miniera) al mio ritorno la foresta non c’era più. Gli abitanti del posto avevano piantato la loro manioca lungo il pendio, tirando giù la terra con la zappetta, facendo franare il tutto. Ho dovuto rinforzare con un intreccio di rami la parete del sentiero piangendo per la mia stupidaggine: noi coloni abbiamo combinato solo guai.

Rwobero era il regno degli animali. Di notte i facoceri venivano a sgraffignare le radici del caffè per mangiare tante piccole palline che, anche se più buone dei tartufi di Alba, significavano la macellazione della mia piantagione.

Una sera ascoltavo i miei dischi di Glenn Miller, gustando un buon bicchiere di bourbon per riposarmi della lunga giornata di lavoro. A un certo punto sul tratturo davanti a casa, ombreggiato da una doppia fila di papaie, sono passati un sacco di animali spaventatissimi, con gli occhi rossi: non ho mai visto correre così in fretta antilopi, bufali… Dopo circa mezz’ora, un tonfo. La peluche si apre e richiude e tutte le mie capanne iniziano a ballare il valzer. Di fronte a me i fuochi d’artificio del Redentore alla massima potenza: il Mikeno stava eruttando. Giungono anche i gorilla di montagna divisi in due gruppi, uno di cinque animali con in testa la madre e un altro di 7 sempre guidati dalla matriarca. Dopo un po’ di tempo due giganteschi maschi lasciano una scia puzzolente.

Quelle bestie erano talmente belle ed emozionanti che mi era venuta la voglia di andare a vedere dove vivessero. Così con il mio capita, che era un bellissimo watusso di un’intelligenza superiore, nel giro di 3 giorni abbiamo visto appoggiate a dei baobab capanne di foglie e rami intrecciati costruite molto meglio rispetto di quelle dei pigmei della piana del basso Congo. Mentre ero lì, dopo un po’ è arrivata la madre con la coda di due bambini: purtroppo io ho un grosso difetto, non ho paura e la paura puzza. Così i gorilla mi sono venuti vicino, mi guardavano e quasi mi leccavano curiosi. Era la prima volta che vedevano una salacca di pelle bianca.

Nel National Geographic leggo che purtroppo i gorilla di montagna sono in fase di estinzione anche a causa di alcune tradizioni orientali che ne considerano le parti nobili come dei fortissimi afrodisiaci. Anche se protetti, col casino che c’è oggi in quel paese, i gorilla continuano a essere decimati dai contrabbandieri.

Penso a Darwin e al fatto che tutti noi veniamo dall’Africa. Deriviamo dai gorilla e dagli scimpanzé. Mentre i gorilla sono degli animali pacifici gli scimpanzé sono pestiferi come noi umani, ne so qualcosa perché per ben cinque anni la mia dama di compagnia è stata Dedè che i bagnarwanda mi hanno portato appena nata avendone ucciso la madre. Mi ha insegnato ad essere curiosa e diffidente del mio prossimo.

LE MIE CALDE ESTATI NELLE PIANURE SELVAGGE E VENTOSE DELL’ ALBERTA, IN CANADA





















Gli anabattisti canadesi erano i nostri vicini a Carmenghey, la section dove, con Marco mio fratello, coltivavamo frumento, il famoso manitoba, orzo, monarda, issopo (che distillavamo mettendoci il cartello veleno perché era una medicina per il mal di cuore).

Carmenghey era un luogo affascinante dove la notte il cielo splendeva illuminato dalle aurore boreali. Io ci andavo solo in agosto per i raccolti perché d’inverno la temperatura era tra i 50 e i 40 gradi sotto zero con sbalzi di + 15° perché l’area era colpita di tanto in tanto dallo Scianuk, un vento caldo portato dalla corrente per cui qualsiasi pianta passando dal gelo al caldo-umido scoppiava. Io che amavo i fiori avevo risolto il problema in questo modo: siccome lavoravo nel vicino orto botanico di

Brooks, praticamente tutta una serra, tenevo le mie piante da loro.

Avevamo un unico salariato fisso la cui moglie si occupava della casa. Il raccolto veniva stivato con degli elevatori nei vari silos di proprietà di ogni coltivatore da cui scendeva sui treni, unici nella regione, che lo portavano a Vancouver dove veniva imbarcato per raggiungere tutto il mondo.

Con la crisi del grano il prezzo del frumento e dell’orzo era crollato e ci dovevamo inventare un modo per sopravvivere. Fra le mie varie piantine c’era la menta che cresceva benissimo. Con mio fratello abbiamo pensato di coltivarla ma dovevamo stare molto attenti a non importare microbi e batteri perché la zona, grazie al gelo, era ancora pulita. Allora ho trovato questa fantastica menta a Seattle. Dato il clima cresceva in pochissimo tempo e la distillavamo con un marchingegno che avevamo creato come quello che adoperavo a Collalato per fare la grappa di sfroso con le vinacce, i resti della vendemmia.

I nostri vicini di Clear Lake Colony erano anabattisti e venivano a darci una mano per coltivare i terreni, oltre agli indiani che erano piedi neri. Questo ci ha risolto il problema fino a che i cinesi hanno cominciato a comprare il grano per fare gli spaghetti. Le mietitrici erano gigantesche e archeologiche, naturalmente sempre rotte; io giravo per i campi con il meccanico nella mia Volkswagen aggiustandole in continuazione. Quando c’ero io, riuscivamo a trebbiare in un mese.

Gli hutteriti erano dei contadini nati, avevano un sacco dimaiali rinchiusi in ambienti particolari dove non si poteva entrare per questioni igieniche, oche e mucche che mungevano a suon di Beethoven, cosa che mi ha sempre affascinato.

Mia cugina, la moglie di Goio, aveva un pezzo di terra vicino a noi. Affezionata amazzone, aveva dei cavalli arabi bellissimi e temperamentosi che passavano gli inverni dagli Hutteriti. A un certo punto una femmina è stata montata da un cavallo indiano coi puntini sul sedere. È nata una cavallina bellissima. Io ero appena stata operata di cancro, la sella mi faceva male così montavo a pelo solo con una coperta come gli indiani, era una gioia correre in mezzo a tutte quelle spighe al sorgere del sole. C’era però un problema: lì era pieno di serpenti e i cavalli potevano imbizzarrirsi, allora il mio indiano passava a prendermi la mattina e veniva via con me così se cascavo mi tirava su. Non è mai successo.

Regnavano i topi. Davanti alla mia porta c’era una cesta dove un serpente a sonagli arrotolato diventava la cuccia della mia gatta color carbone che di notte si infilava nel mio letto facendomi da scaldino come fa oggi il mio adorato Biagio in quel di Venezia.

La mia natura fin da piccola mi ha sempre fatto vivere in simbiosi con gli animali: il rapporto che ho con loro è istintivo, molto più facile rispetto a quello che ho con gli esseri umani.


Le foto di Gianni Berengo Gardin sono tratte da: "Hutteriti Tirolesi d'America" con testi di Tudy Sammartini e foto di Gabriella Nessi Parlato e Gianni Berengo Gardin, Edition Raetia, Bolzano 1996.

giovedì 8 marzo 2012

MOSTRI A VENEZIA: post scriptum


































La via alterna al passaggio delle grandi navi esiste già, è quella che usa Fincantieri per la prova in mare delle sue nuove enormi costruzioni: risulta essere la più naturale, convenente (sia dal punto di vista ambientale che da quello economico) e rapida da realizzare. Scavare il canale V. Emanuele costerebbe la metà rispetto a quanto si spenderebbe per il Contorta (50 e oltre milioni di investimento a carico dello Stato, senza contare l'inestimabile impatto ambientale...). Potrebbe essere realizzato rapidamente con un semplice dragaggio. Dove è finito il buon senso? Grazie Fincantieri! ...Ma perché fate le navi così grandi da diventare ingestibili?