Il mio caffè a Rwobero
Ho abbonato mio figlio Paolo a National Geographic il giorno in cui è nato e anche per me quel magico giornale è una consolazione nelle mie ore di pausa.
Nel numero di novembre 2011, a pagina novantaquattro, c’è un articolo che parla dei gorilla di montagna: mi ha aperto un flash sulla mia vita di ultima colonialista a Rwobero, Kivù, ex Congo Belga, dove ho introdotto su cinquanta ettari la varietà di Blue Mountain Kenya che avevo contrabbandato dall’Uganda nascondendola nel bagagliaio della mia Volkswagen.
Avevo piantato le piantine nella pepigner a un metro di distanza l’una dall’altra e una notte di plenilunio la mia guardia del corpo, i miei cinque bull terrier, mi svegliano facendo una gran cagnara. Tutti abbaiavano, compreso Mustique, il mio preferito, che in teoria doveva dormire per terra sullo stuoino, ma che in realtà s’infilava nel letto tra me e il muro facendomi cascare.
Anche quel letto ha una storia interessante: smontato, mi seguiva da per tutto, oggi è il sofà della mia casa e un tempo era il letto di campo di mio trisnonno, ufficiale nella campagna napoleonica in Alta Italia.
Sentendo tutta quella confusione corro fuori, chiamo lo zamo Patamù, che se ne stava chiuso nel suo casotto quando i cani erano liberi in segno di “rispetto”, insieme andiamo a vedere cosa succede.
La piantagione si stendeva su un dosso di collina affacciato su una distesa di matete che confinava col Parco Alberto. Nella stagione delle piogge gli elefanti salivano sulla collina, ricordo che una volta nel giro di una notte mi hanno divorato tutte le piantine di caffè! Per ovviare all’inconveniente, ho pensato bene di dare il terreno circostante ai miei lavoratori affinché vi coltivassero la loro manioca: 50 di essi erano cannibali col dentino aguzzo, ero andata a prenderli sulle pendici del vulcano Mikeno. In questo modo gli elefanti cercavano di mangiare la manioca ma venivano scacciati, salvando il mio caffè.
Grazie alla terra vulcanica, quella zona era molto fertile, per cui tutto cresceva in un modo incredibile, bastava annaffiare. L’acqua era l’unico vero problema: me ne serviva tanta, anche per lavare le ciliegine del caffè in modo da poterle poi seccare al sole sulle kitande. Sono dovuta andare a prendermela in una sorgente piuttosto lontana attraversando una foresta impenetrabile; malgrado la negazione e le proteste del mio stregone, ho creato una strada in pendenza in modo da poter fare arrivare l’acqua alla piantagione. Maledetta quella volta.
Dopo essere stata via per un periodo in perspection nella foresta di Stanley (quelli del governo venivano a studiare i terreni perché era tutto una miniera) al mio ritorno la foresta non c’era più. Gli abitanti del posto avevano piantato la loro manioca lungo il pendio, tirando giù la terra con la zappetta, facendo franare il tutto. Ho dovuto rinforzare con un intreccio di rami la parete del sentiero piangendo per la mia stupidaggine: noi coloni abbiamo combinato solo guai.
Rwobero era il regno degli animali. Di notte i facoceri venivano a sgraffignare le radici del caffè per mangiare tante piccole palline che, anche se più buone dei tartufi di Alba, significavano la macellazione della mia piantagione.
Una sera ascoltavo i miei dischi di Glenn Miller, gustando un buon bicchiere di bourbon per riposarmi della lunga giornata di lavoro. A un certo punto sul tratturo davanti a casa, ombreggiato da una doppia fila di papaie, sono passati un sacco di animali spaventatissimi, con gli occhi rossi: non ho mai visto correre così in fretta antilopi, bufali… Dopo circa mezz’ora, un tonfo. La peluche si apre e richiude e tutte le mie capanne iniziano a ballare il valzer. Di fronte a me i fuochi d’artificio del Redentore alla massima potenza: il Mikeno stava eruttando. Giungono anche i gorilla di montagna divisi in due gruppi, uno di cinque animali con in testa la madre e un altro di 7 sempre guidati dalla matriarca. Dopo un po’ di tempo due giganteschi maschi lasciano una scia puzzolente.
Quelle bestie erano talmente belle ed emozionanti che mi era venuta la voglia di andare a vedere dove vivessero. Così con il mio capita, che era un bellissimo watusso di un’intelligenza superiore, nel giro di 3 giorni abbiamo visto appoggiate a dei baobab capanne di foglie e rami intrecciati costruite molto meglio rispetto di quelle dei pigmei della piana del basso Congo. Mentre ero lì, dopo un po’ è arrivata la madre con la coda di due bambini: purtroppo io ho un grosso difetto, non ho paura e la paura puzza. Così i gorilla mi sono venuti vicino, mi guardavano e quasi mi leccavano curiosi. Era la prima volta che vedevano una salacca di pelle bianca.
Nel National Geographic leggo che purtroppo i gorilla di montagna sono in fase di estinzione anche a causa di alcune tradizioni orientali che ne considerano le parti nobili come dei fortissimi afrodisiaci. Anche se protetti, col casino che c’è oggi in quel paese, i gorilla continuano a essere decimati dai contrabbandieri.
Penso a Darwin e al fatto che tutti noi veniamo dall’Africa. Deriviamo dai gorilla e dagli scimpanzé. Mentre i gorilla sono degli animali pacifici gli scimpanzé sono pestiferi come noi umani, ne so qualcosa perché per ben cinque anni la mia dama di compagnia è stata Dedè che i bagnarwanda mi hanno portato appena nata avendone ucciso la madre. Mi ha insegnato ad essere curiosa e diffidente del mio prossimo.