L’apertura della Biennale architettura riporta alla mente di Tudy Sammartini il ricordo del suo ruolo di guida di Le Corbusier durante la sua visita a Venezia più di 25 anni fa.
Testo di Tudy Sammartini
“Il silenzio e la voce umana, questo è il miracolo di Venezia, una città che, all’interno dell’ordine moderno, rimane un dono mandato da Dio, sempre lì, sempre presente, che nessuno deve distruggere”.
Le Corbusier
Nel 1964 l’Università di Architettura invita Le Courbusier a Venezia, che in quell’occasione presenta il suo progetto per il nuovo ospedale previsto a Cannaregio nella zona dell’ex macello, di cui aveva avuto l’incarico grazie agli sforzi sovrumani di Giuseppe Mazzariol. Mazzariol era l’assistente di Bruno Zevi quando io ero matricola e il mio primo esame sul “casotto” di Le Corbusier, che s’inseriva come uno sperone nell’acqua della spiaggia che va da Mentone a Roquebrune, aveva avuto un certo successo.
Era un edificio che conoscevo bene e che amavo molto, ero riuscita ad ammansire il guardiano, e così avevo potuto studiarlo bene dentro e fuori.
Mi piaceva il rigore della forma, l’essenzialità dell’arredamento, la rudezza del mattone e la struttura che in lontananza marcava quel tratto di spiaggia, rivelandosi nella sua possenza man mano che vi si avvicinava.
Proprio da quel “casotto” l’architetto, da vecchio stanco di vivere, ha nuotato verso il largo per farsi inghiottire dal suo mare che adorava.
Devo ammettere che da quell’edificio è nata la mia passione per l’opera di Le Corbusier ma non per l’uomo – conosciuto proprio in occasione della presentazione dell’ospedale – che era proprio scorbutico.
Bepi Mazzariol era un uomo eccezionale, un vulcano rigurgitante idee geniali per valorizzare Venezia che amava e conosceva a fondo, la sua eterna modernità e le sue infinite possibilità, che immancabilmente andavano a farsi friggere grazie all’ottusità dei suoi amministratori.
A quei tempi grazie al mio francese che era fresco di studi – e malgrado l’accent du midi, come diceva Albert Camus, prendendomi in giro durante il mio apprendistato all’università di Grenoble -, e grazie al mio lavoro sul gabbiotto ebbi l’onore di spupazzare il personaggio che era “grande” anche di altezza, sebbene un po’ curvo, con occhi nascosti da spessi occhiali.
L’avventura è durata tre giorni, imprevedibile, a volte divertente, piuttosto faticosa, ma proficua per capire molte cose sulla mia città e sull’architettura in generale.
Come ringraziamento ho ricevuto un disegno di un asino. Stupita gli ho chiesto perché proprio un asino, e Le Corbusier mi ha risposto che è l’animale più utile per una come me che adora girellare per il deserto, dormendo in sacco a pelo immersa in un un’imbottita di stelle, e che detesta i cammelli che fanno scoregge infernali. Il primo giorno siamo andati in giro in gondola; costeggiando la Scuola di San Marco si è esaltato davanti alle eleganti strutture del Coducci, al dolce dondolio della barca.
Quel giorno non c’erano malefiche barche a motore né motoscafi, e potevamo ammirare tranquillamente le facciate delle case, gli ingressi d’acqua e i ricami delle aperture, grandi e misteriosi occhi neri.
Le domande erano infinite, avevo il terrore della mia ignoranza ma me la sono cavata. Era entusiasta di questa città a misura d’uomo, delle case riflesse nell’acqua, di questa luce sempre diversa.
Era decisamente di ottimo umore. Era veramente a suo agio.
L’episodio più divertente è stato quando siamo andati a visitare la Querini Stampalia.
Carlo Scarpa ci aspettava all’ingresso; attraversato il ponte al cui parapetto si era aggrappato, Le Corbusier scende appoggiandosi per fortuna al mio braccio: con i suoi piedoni stava scivolando sul gradino diagonale!
Dalla sua bocca è uscita una gragnola di parolacce che mi hanno fatta ridere quanto la faccia impaurita di Carlo Scarpa che si nascondeva dietro il volume dell’ascensore. Passato l’inghippo, gli animi si sono pacificati nel magico giardino trangugiando del fresco prosecco.
Anni dopo Mazzariol mi ha regalato il Viaggio in Oriente e, dopo la mia recensione del libro, Gresleri i Carnets du Voyage d’Orient.
Quello che mi ha fatto un gran effetto è l’analogia che esiste tra il viaggio del Maestro e quello di Ugo Sissa, mio marito, che in periodi diversi hanno percorso gli stessi luoghi innamorati entrambi delle stesse cose, che in modo diverso hanno ispirato le loro opere.
Quello che mi affascina sono le affinità dei loro schizzi.