venerdì 4 febbraio 2011

Le Corbusier

XII VENICE BIENNALE


L’apertura della Biennale architettura riporta alla mente di Tudy Sammartini il ricordo del suo ruolo di guida di Le Corbusier durante la sua visita a Venezia più di 25 anni fa.

Inviato da Maria Giulia Zunino - 30.08.2010

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Testo di Tudy Sammartini

“Il silenzio e la voce umana, questo è il miracolo di Venezia, una città che, all’interno dell’ordine moderno, rimane un dono mandato da Dio, sempre lì, sempre presente, che nessuno deve distruggere”.
Le Corbusier

Nel 1964 l’Università di Architettura invita Le Courbusier a Venezia, che in quell’occasione presenta il suo progetto per il nuovo ospedale previsto a Cannaregio nella zona dell’ex macello, di cui aveva avuto l’incarico grazie agli sforzi sovrumani di Giuseppe Mazzariol. Mazzariol era l’assistente di Bruno Zevi quando io ero matricola e il mio primo esame sul “casotto” di Le Corbusier, che s’inseriva come uno sperone nell’acqua della spiaggia che va da Mentone a Roquebrune, aveva avuto un certo successo.
Era un edificio che conoscevo bene e che amavo molto, ero riuscita ad ammansire il guardiano, e così avevo potuto studiarlo bene dentro e fuori.
Mi piaceva il rigore della forma, l’essenzialità dell’arredamento, la rudezza del mattone e la struttura che in lontananza marcava quel tratto di spiaggia, rivelandosi nella sua possenza man mano che vi si avvicinava.
Proprio da quel “casotto” l’architetto, da vecchio stanco di vivere, ha nuotato verso il largo per farsi inghiottire dal suo mare che adorava.
Devo ammettere che da quell’edificio è nata la mia passione per l’opera di Le Corbusier ma non per l’uomo – conosciuto proprio in occasione della presentazione dell’ospedale – che era proprio scorbutico.
Bepi Mazzariol era un uomo eccezionale, un vulcano rigurgitante idee geniali per valorizzare Venezia che amava e conosceva a fondo, la sua eterna modernità e le sue infinite possibilità, che immancabilmente andavano a farsi friggere grazie all’ottusità dei suoi amministratori.
A quei tempi grazie al mio francese che era fresco di studi – e malgrado l’accent du midi, come diceva Albert Camus, prendendomi in giro durante il mio apprendistato all’università di Grenoble -, e grazie al mio lavoro sul gabbiotto ebbi l’onore di spupazzare il personaggio che era “grande” anche di altezza, sebbene un po’ curvo, con occhi nascosti da spessi occhiali.
L’avventura è durata tre giorni, imprevedibile, a volte divertente, piuttosto faticosa, ma proficua per capire molte cose sulla mia città e sull’architettura in generale.
Come ringraziamento ho ricevuto un disegno di un asino. Stupita gli ho chiesto perché proprio un asino, e Le Corbusier mi ha risposto che è l’animale più utile per una come me che adora girellare per il deserto, dormendo in sacco a pelo immersa in un un’imbottita di stelle, e che detesta i cammelli che fanno scoregge infernali. Il primo giorno siamo andati in giro in gondola; costeggiando la Scuola di San Marco si è esaltato davanti alle eleganti strutture del Coducci, al dolce dondolio della barca.
Quel giorno non c’erano malefiche barche a motore né motoscafi, e potevamo ammirare tranquillamente le facciate delle case, gli ingressi d’acqua e i ricami delle aperture, grandi e misteriosi occhi neri.
Le domande erano infinite, avevo il terrore della mia ignoranza ma me la sono cavata. Era entusiasta di questa città a misura d’uomo, delle case riflesse nell’acqua, di questa luce sempre diversa.
Era decisamente di ottimo umore. Era veramente a suo agio.
L’episodio più divertente è stato quando siamo andati a visitare la Querini Stampalia.
Carlo Scarpa ci aspettava all’ingresso; attraversato il ponte al cui parapetto si era aggrappato, Le Corbusier scende appoggiandosi per fortuna al mio braccio: con i suoi piedoni stava scivolando sul gradino diagonale!
Dalla sua bocca è uscita una gragnola di parolacce che mi hanno fatta ridere quanto la faccia impaurita di Carlo Scarpa che si nascondeva dietro il volume dell’ascensore. Passato l’inghippo, gli animi si sono pacificati nel magico giardino trangugiando del fresco prosecco.
Anni dopo Mazzariol mi ha regalato il Viaggio in Oriente e, dopo la mia recensione del libro, Gresleri i Carnets du Voyage d’Orient.
Quello che mi ha fatto un gran effetto è l’analogia che esiste tra il viaggio del Maestro e quello di Ugo Sissa, mio marito, che in periodi diversi hanno percorso gli stessi luoghi innamorati entrambi delle stesse cose, che in modo diverso hanno ispirato le loro opere.
Quello che mi affascina sono le affinità dei loro schizzi.

www.veneziasammartini.com

Giorgio Bellavitis

L’ARSENALE DI VENEZIA


Tudy Sammartini, scrittrice veneziana ci propone un nuovo libro sull’Arsenale di Venezia scritto da Giorgio Bellavitis, del quale fa un ritratto personalissimo.

Inviato da abitare - 21.04.2010

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È uscito per i tipi della Cicero L’Arsenale di Venezia, la storia di una grande struttura urbana dell’architetto Giorgio Bellavitis, purtroppo uscita dopo la sua morte, in un’edizione rinnovata e arricchita di quanto scritto oltre vent’anni faopenlibrary.org/a/OL1141964A/Giorgio-Bellavitis.
Si tratta di un affresco preciso e documentato della storia e delle trasformazioni della fabbrica dell’Arsenale. Giorgio studia l’impatto socioeconomico di questo complesso sulle dinamiche urbanistiche della città e ci fa toccare con mano il fascino misterioso dato dalla sua natura fortificata. Scrive: “Ancor oggi per chi raggiunge Venezia dal mare, attraverso i contorti canali che vanno dal porto di San Nicolò al bacino di San Marco, non è facile scoprire la presenza e la vastità dell’area murata corrispondente all’Arsenale. Il massimo che il navigatore ne può vedere, difatti, è una coppia di torri merlate, rifatte a fine Seicento, che sorge al termine di uno stretto canale, detto rio dell’Arsenale. L’Arsenale, in altre parole, resta un luogo tanto grande e rinomato, quanto sottratto alla visione immediata dell’esterno”. L’unico punto da cui si può avere una veduta completa della sua struttura, è dalla finestra del campanile di San Francesco della Vigna, sempre chiusa, le cui chiavi erano custodite solamente dall’abate del convento e dal Proto dell’Arsenale. La prima stesura delle Carceri di Piranesi (1761) è di livello così eccezionale da far pensare che lo stesso Piranesi vi avesse lavorato, anche se non disponiamo per il momento di documenti ufficiali. Già nel XII secolo l’Arsenale era una macchina perfettamente funzionante, anche se dimensioni ridotte rispetto alla struttura odierna, primo esempio di fabbrica coperta in Occidente, ispirata agli esempi degli arabi che dovevano proteggersi dai raggi cocenti del sole.

g.b.maffioletti, pianta dell'arsenale. 12 maggio 1797. museo storico navale, venezia.

La novità veneziana era così sorprendente da suscitare meraviglia in Europa e venir citata perfino da Dante nell’Inferno (….Come l’arzenà di Venezia…). Col passare del tempo questa meccanismo diventa così perfetto da produrre una galea perfettamente equipaggiata in un giorno, quando necessario.

galera capitana con stendardo recante lo stemma da canal tratta da “militia marittima” 1553-54. venezia, biblioteca nazionale marciana.

Il libro di Bellavitis è talmente preciso e affascinante da renderci partecipi di tutte le fasi costruttive, nei minimi dettagli, come fossimo lì a guardare! Scopriamo una nuova città nella città dove le possenti strutture, fornite di addetti altamente specializzati nelle diverse fasi costruttive, contrastano con il prezioso merletto di marmi policromi delle facciate affrescate dei palazzi riflesse negli specchi d’acqua dei canali.

vittore carpaccio, storie di sant'orsola, partcolare, venezia gallerie dell'accademia

La persona di Bellavitis, raccoglie in se infinite sfaccettature. Inizia come autore di fumetti ricchi di spirito ironico, concepiti come opera d’arte. L’ho visto per la prima volta a Londra, era pieno di scharme e di una simpatia disarmante. Il suo studio, sopra uno dei pub più famosi di Soho era frequentato dalle più belle fanciulle della città.

un fumetto di bellavitis

Chiusa la parentesi londinese torna a Venezia.

bellavitis, guarda e prat sui coppi del palazzo baglioni a venezia nel 1953

E sposa Nanni Valle, una delle mie più care amiche, la chiamavo sorella grande, e decide finalmente di adoperare la sua laurea di architetto:.esegue una serie di restauri prestigiosi che fanno storia. Due mi hanno affascinato in particolare Ca Rezzonico e il Convento di San Salvador. Nel primo (creatori Baldassare Longhena e Giorgio Massari) rinforzate le strutture murarie e sopraelevati gli interi ha lasciato che la marea durante le diverse fasi scorresse lungo le pareti dell’edificio senza intaccarne la potente struttura. Quando c’è il sole, l’acqua illumina il doppio atrio e il cortile che li separa facendo risaltare i dettagli scultorei, che a Venezia sono sempre parte integrante dell’architettura. L’edificio diventa una gigantesca scultura che nasce dai due canali che l’abbracciano.

ca'rezzonico

Il convento di San Salvador è l’altro mio grande amore, il restauro mi è talmente congeniale che mi sembra d’averlo fatto io stessa; durante i lavori ci ho bazzicato abbastanza. I rapporti volumetrici e spaziali da lui ripristinati sono uno dei più alti esempi del rinascimento veneziano.

Avevo visto Giorgio poco fa, nella sua carozzina; mi aveva salutato con il suo caldo sorriso domandandomi come andavano le mie piante che a poco a poco hanno invaso la fondamenta rendendola un piacevole giardino dove la sera, usando la mia tavola da disegno su due cavalletti, mi piace invitare a cena gli amici alla piacevole brezza della Calle del Vento. Che tristezza uno a uno scompaiono i miei amici.

Il Lazzaretto restaurato


IL LAZZARETTO RESTAURATO


Dalla storia alla leggenda: Tudy Sammartini parla di peste, di ossa ritrovate, di dottori- maschera per introdurre il restauro del nuovo lazzaretto.

Inviato da Maria Giulia Zunino - 23.03.2010

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Nel 1249 i Padri Eremitani avevano eretto una chiesa consacrata a Santa Maria di Nazareth e un ricovero per i pellegrini diretti in Terrasanta in un’isola vicina al Lido.

Nel 1423 su consiglio di San Bernardino da Siena, il Senato della Repubblica deliberò di destinare l’isola ad accogliere persone e merci provenienti da paesi infetti e di provvedere i ricoverati di vitto, medicine e assistenza. Sembra che il termine lazzaretto derivi dalla contaminazione di Santa Maria di Nazareth con il nome del santo patrono degli appestati, Lazzaro. Le spese per la manutenzione dell’ospizio furono sostenute, nei primi sessant’anni, con i proventi dell’Ufficio del Sale, per passare poi sotto la gestione del Magistrato di Sanità, al quale si debbono pagamenti, precauzioni, visite, controlli e quarantene.

L’isola era divisa da un canale attraversato da un ponte: nella porzione più piccola vi era il deposito di polvere da sparo e un alloggio per i soldati di guardia (il casello); in quella maggiore, a forma di rettangolo, era situato l’ospedale vero e proprio che aveva inglobato il monastero preesistente. Le costruzioni erano allineate sui lati di una piazzetta e di due cortili. Sulla piazzetta si trovavano le abitazioni del priore e del suo assistente, i magazzini degli attrezzi, il serbatoio dell’acqua e le gallerie dove gli uomini sospetti di contagio passavano la quarantena. Intorno al primo cortile – in origine il chiostro del convento – c’erano le abitazioni dei Provveditori Generali e dei Rettori Veneti che tornavano in patria. Intorno al secondo cortile erano poste cento cellette per i ricoverati. Nei fabbricati, nelle tettoie e nei prati, separati da cancelli di legno, si praticava l’espurgo delle merci a seconda delle varie contumace.

1 il lazzaretto vecchio come appariva a metà del xviii secolo in una incisione di francesco zucchi in “teatro delle fabbriche più cospicue in prospettiva sì pubblica che privata” (1740).

Nel 1456 si comincia a discutere di utilizzare una seconda isola per la quarantena. Finalmente nel 1468 viene fatto erigere il Lazzaretto Nuovo, nell’isola chiamata “della Vigna Murata” di proprietà dei frati di S. Giorgio. Nel Lazzaretto Vecchio esistevano fosse comuni preordinate nelle quali inumare i cadaveri dei morti di peste; al Lazzaretto Nuovo, pensato solo come luogo di isolamento per uomini e merci, nei momenti di emergenza le vittime del morbo furono seppellite disordinatamente. Poteva così capitare che per approntare nuove sepolture si andasse a scavare dove erano già stati deposti altri cadaveri. Come deve essere successo al corpo di donna “ID 6″ scoperto da Matteo Borrini, durante il recente restauro del Lazzaretto Nuovo, ritrovato con un mattone conficcato nella bocca al punto di spaccare denti e mascelle.

il cranio della donna ritenuta una “non-morta” o vampiro con il mattone conficcato in bocca per impedirle di nutrirsi e ritornare in vita.

L’ignoranza popolare sulle cause delle pestilenze portò ad attribuire la loro diffusione ai “non-morti”. Lo scheletro della donna dimostra che quel cadavere venne creduto un vampiro. La credenza dei vampiri-untori si sviluppò osservando le esumazioni dei cadaveri recenti e gli sconosciuti segni della putrefazione, creduti tracce dei mostri infetti che si nutrivano delle carni marce fortificandosi e diffondendo la malattia. Il dottore che curava i malati, una maschera ancora oggi caratteristica del carnevale veneziano, deriva dal costume ideato nel XVI secolo e formato da guanti lunghi, occhialoni, stivaloni, una tunica cerata e una bacchetta per sollevare le coperte e gli indumenti del malato. La maschera a forma di testa d’anatra proteggeva il volto e nel lungo becco erano conservati come medicamenti sali, spezie ed essenze, rosmarino, aglio e ginepro. Quest’ultimo veniva anche fatto ardere per purificare l’aria dal morbo.

il costume del dottore.

Basta rileggere i “Promessi sposi” del Manzoni dove, ai capitoli 21° e 22°, tra le cause di pestilenza troviamo le «…emanazioni autunnali delle paludi…», «l’opera degli untori» , «…arti venefiche, operazioni diaboliche…». Se queste erano le conoscenze che si avevano nel Seicento, si può immaginare quanto più scarse fossero due secoli prima. Il terrore per il morbo era sostenuto dalla fede: il castigo divino si scagliava secondo provvidenza contro le malefatte dell’umanità a espiazione dei peccati dell’uomo.

Dal 1846 al 1965 il Lazzaretto Vecchio passa alle autorità militari, prima austriache e poi italiane. Durante questo periodo vengono demolite due ali del chiostro, la chiesa con il campanile, il parlatorio e altri edifici. Abbandonato nel 1968, viene dato in concessione dal Comune di Venezia a un gruppo cinofilo per ospitare un ricovero per cani randagi. Il centinaio di cani che convive con una quarantina di gatti diventa il migliore deterrente ai vandalismi che hanno distrutto le altre isole della laguna. Questo è il periodo in cui io frequentavo l’isola per occuparmi delle povere bestie, in particolare di un cane fulvo e l’altro nero, grande quattro volte il primo. Mi ricordo che il cibo per i cani e gli attrezzi erano disposti con ordine su scaffalature in un angolo del capannone. Nel cortile il guardiano armeggiava intorno a un enorme pentolone che bolliva vicino a un lungo tavolo coperto da ciotole ben allineate.

1 il lazzaretto vecchio come appariva a metà del xviii secolo in una incisione di francesco zucchi in “teatro delle fabbriche più cospicue in prospettiva sì pubblica che privata” (1740).

Sul cortile con pozzo centrale si affaccia la casa del priore con le aperture incorniciate in pietra d’Istria; una scala esterna passa sopra la cavana e dà accesso alla piccola isola vicina coperta di robinie e pungenti ortiche. Sul retro, attraverso una antica scala esterna, si raggiunge una loggetta cinquecentesca ad eleganti colonne, il cui tetto è semi crollato. A sinistra una serie di stanze, la prima delle quali è dipinta come una tenda moresca a colori rossi e bruni, usata qualche anno prima per un film su Marco Polo. Sotto di noi oltre il muro un ben curato orto a insalate, piselli e prezzemolo nano. Un’alta rete lo separa da un prato dove alberi di amoli, maturi a fine agosto, fanno ombra a gruppi di gatti indifferenti e in posizioni rilassate. Tornati nel cortile, ci troviamo di fronte l’imponente bassorilievo con i santi Sebastiano, Marco e Rocco, incorniciato dal leone marciano e dagli stemmi dei Procuratori che avevano giurisdizione sul Lazzaretto. Lasciato il cortile, sulla sinistra, su di un’area quadrata rialzata con il pozzo al centro, c’è un elegante fabbricato a logge, sostenuto da colonne in pietra d’Istria con capitelli a mensola, quasi fossero barbacani, è quanto rimane dell’antico chiostro che una volta ospitava gli ambasciatori e oggi l’infermeria degli animali. Dalla loggia non si vedono i cani nascosti dai fabbricati e dagli alberi, si sentono soltanto; è un abbaiare a volte frenetico a volte sommesso e, ogni tanto, un richiamo nel silenzio assoluto. È molto più reale l’odore intenso dell’erba appena tagliata che si mescola a quello dei pitosfori in fiore. I recinti affiancano le costruzioni lunghe e strette che coprono il resto dell’isola. I cani raggruppati a due o tre dispongono delle celle che ospitavano i malati. Intorno il prato è perfettamente pulito, né rovi né ortiche, qua e là ciuffi di giaggioli. Una spessa coltre di edera cangiante copre come un tappeto le parti in ombra e i tronchi degli alberi.

Nel 2004 sono iniziati dei lavori di recupero in previsione dell’allestimento di un “Museo della città di Venezia”.

il lazzaretto vecchio durante il restauro.

Il recupero statico riguarda i fabbricati, le mura perimetrali dell’Isola. Nell’occasione, gli scavi hanno portato alla luce fosse singole e comuni con oltre 1.500 scheletri di appestati, la cui analisi fornirà informazioni relative alla vita dei veneziani del Cinquecento.

il ritrovamento dei cadaveri nella fossa comune del lazzaretto vecchio

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