giovedì 12 novembre 2009

Greenaway/Veronese


GREENAWAY/VERONESE


Quando il conte Vittorio Cini ha recuperato il convento di San Giorgio Maggiore, creando la fondazione Giorgio Cini in memoria del figlio morto in un incidente aereo, ha fatto di tutto per far tornare a casa le Nozze di Cana. Dipinta da Paolo Veronese tra il 1562 e il 1563 per il refettorio, prima opera di Andrea Palladio a Venezia, la tela è finita in Francia alla fine del Settecento col bottino napoleonico. Senza di essa il meraviglioso spazio era monco, le fughe delle linee orizzontali morivano in un muro sordo alterando l’equilibrio del magico luogo.

Qualche anno fa, grazie alle moderne tecniche, una gigantografia del dipinto ha sostituito l’originale, ricreandone i rapporti prospettici.

In occasione della Biennale Peter Greenaway ha fatto un’operazione affascinante: ha proiettato le gigantografie dell’opera originale negli interstizi tra le finestre, rispettando le prospettive del quadro. Il punto focale era il centro della sala e il lavoro era assai complicato perché bisognava fare in modo che le varie figure  non risultassero sfuocate anche osservate da altri punti.
Le varie scene proiettate venivano identificate con un contorno in rosso sull’opera generale e i loro dialoghi venivano recitati in inglese e veneziano da voci di presunti discendenti dei personaggi ritratti, dando la sensazione di parteciparvi pure noi.
Io che a Greenaway avevo già dato una mano durante una precedente biennale per l’allestimento di una preziosa tavola imbandita nel salone di Palazzo Fortuny, zompavo come una cavalletta per controllare che le scene fossero perfette.

C’era un enorme marchingegno meccanico con una ventina di tecnici che mostravano tutta la loro stanchezza, ma finalmente il risultato corrispondeva alle aspettative dell’artista. In tutto questo trambusto l’Epuratore, direttore della fondazione, era seduto al centro della sala come se fosse l’imperatore di Bisanzio sul suo cerchio di porfido simbolo del suo potere soprannaturale.

Quando l’Epuratore si era finalmente alzato e seduto sulla panca in fondo, mi sono accomodata vicino a lui col preciso scopo di tirarlo in lingua. Gli ho chiesto perché aveva mandato via tutte le persone messe a San Giorgio dal conte, al che si era manifestato estremamente sgradevole dicendomi che la fondazione non era il mio feudo per portarci le amiche aggiungendo di guardarmi bene dal metterci piede. Mi è venuto da ridere perché le mie amiche erano un’altezza reale in incognito con il suo seguito, amante di Venezia, dei fiori e presidente di una delle biblioteche più importanti sulla botanica.

Il veto non mi tocca perché ho arato la magica biblioteca di San Giorgio per anni per il libro del mio professore, John McAndrew, Venetian Architecture of the Early Renaissance, i cui documenti sono nel mio archivio. Posso sempre ammirare San Giorgio dall’alto del campanile senza disturbare l’Epuratore. Poi lui non sa che tra il 1495 e il 1505, ero un monaco benedettino, e che la mia cella nella Manica Lunga era la numero 13 con tutti gli influssi benefici che quel numero porta con sé. Ero talmente di casa che quando ho portato il poeta Andrea Zanzotto a vedere la Manica Lunga, alla fine della sua conferenza invece di ringraziare i responsabili ha ringraziato me per avergli mostrato una tale meraviglia.

www.cini.it

www.labiennale.org

www.veneziasammartini.com

La Biennale di Venezia



L'alba del 3 giugno, un sole splendente scuote la città che di colpo si sbarazza del suo perenne languore. Un’immensa cupola iridescente trattiene a fatica Venezia ancorata alla sua laguna.

La città scoppia d’arte: miriadi di personaggi sono qui per lei, scammellano, disfandosi allo scirocco per vedere tutto: impossibile, non c’è un buco che non sia una mostra, è tutta una kermesse mentre la voglia di vedere tutto si rivela irrealizzabile, ma la gente non lo sa. All’imbrunire e poi al riverbero di una luna piena incorniciata da una affascinante corona impalpabile, scie di insetti si snodano per le calli o rendono spumeggianti le acque dei canali su rombanti motoscafi per non perdere un party e una festa. Le occhiaie dei palazzi sul Canal Grande sputano luci, suoni e rumori. Ogni edificio è violato da fari troppo violenti che ne bruciano gli  stanchi intonaci. La facciata nuova  di palazzo Pisani Moretta masturbata da luci colorate radenti sembra un enorme confetto rosa camicia da notte, come le fauci degli ippopotami in quel di Rwobero in Kivu. All’interno di Ca’ Pisani Moretta s’intravedono volteggiare strani personaggi svolazzanti coperti da costosissime strazze colorate asimmetriche, che moda!  In Canalazzo, davanti a palazzo Bembo, sede della facoltà di Storia dell’Arte, un improbabile sottomarino russo tutto scalcinato non s’immerge mai, un pugno in un occhio.

“SubTiziano” di Alexander Ponomarev davanti a Ca’ Bernardo

“subtiziano” di alexander ponomarev davanti a ca’ bernardo

Le  povere facciate sono anche sputtanate da indecifrabili manifesti… E’ la follia della vernice della Biennale. Sono veramente tutti così contenti o è la frenesia di riempire il vuoto che ci circonda? Le addormentate strutture dell’Arsenale che ogni anno si riappropria di un pezzetto del suo incredibile patrimonio, ospitano di tutto. I grandi spazi delle Gaggiandre sono all’origine della cartella delle prigioni di Piranesi che da bambino girava per l’Arsenale per mano dello zio Proto: situati tra il forte di Sant’Andrea e quello di San Nicoletto con il loro fuoco incrociato difendevano l’ingresso del porto. Oggi le fantastiche travi, la struttura di una galea rovesciata, ospitano tante piccole tende rosse.

Tende galleggianti nelle Gaggiandre

tende galleggianti nelle gaggiandre

La parte estrema dell’Arsenale, detta le Vergini,  una volta era l’eremo di fanciulle di nobile famiglia: per non disperdere le ricchezze di casa, la Repubblica destinava solo una figlia al matrimonio e tutte le altre finivano in clausura. Il doge ogni anno si recava in visita al convento delle agostiniane il primo maggio e la badessa lo omaggiava con un mazzo di fiori dell’orto legato con un nastro d’oro. Il luogo, che ha conservato nei secoli il proprio nome, è scomparso nel Cinquecento per ingrandire l’Arsenale. In questi giorni di Biennale un gigantesco faggio supino sull’erba, formato da tanti pezzettini dei suoi rami, morto per sempre.

L’albero morto nel prato

l’albero morto nel prato

Al bordo del prato un casotto fatiscente contiene anelli sorretti da corde trasparenti che giocano con la luce ritmata dallo sciabordio delle frasche dei tigli.

L’installazione introvabile

l’installazione introvabile

Girando per la città, quasi nascoste vi sono delle deliziose chicche come i minuscoli fiori di stoffe preziose appesi in teche trasparenti che navigano nel salone centrale di Ca’ Mocenigo, il museo del tessuto a San Stae.

”Softly” di Wakako Yamaguchi e Junko Yoshida

”softly” di wakako yamaguchi e junko yoshida

Nel chiostro di San Salvador c’è un video di Susan Kleinberg e Les Guthman dove una bolla d’aria che si muove in continuazione contiene delle figure che sembrano uscire da un  vaso greco del periodo di Pericle.

La sfera di Susan Kleinberg e Les Guthman nel centro Telecom a San Salvador

la sfera di susan kleinberg e les guthman nel centro telecom a san salvador

La Punta della Dogana è un ottimo intervento di restauro di Tadao Ando assolutamente non invasivo mentre il contenuto, per me sgradevole, è talmente pornografico da scandalizzare perfino il nostro Patriarca, il Cardinale Scola, uomo di larghe vedute.

Punta della Dogana, il cubo di Tadao Ando

punta della dogana, il cubo di tadao ando

Penso quanto avesse ragione il mio grande amico musicista ed esorcista, il benedettino Padre Pellegrino che mi diceva sempre che in questo momento regna el diol. La macchina infernale di Renzo Piano nell’ultimo elemento dei Saloni è una magia: l’ambiente e le opere si esaltano a vicenda. Si tratta dell’ultimo capannone sulla fondamenta del canale. Questa serie di edifici sono un esempio della tecnica costruttiva dei veneziani del 1300. La struttura in mattoni rinforzata da contrafforti forma un unico blocco, le cui travature imbevute di sale per 500 anni sono più resistenti dell’acciaio. Infatti sopportano il marchingegno di 60 tonnellate che fa uscire lentamente i quadri dalle griglie di contenimento, quadri che navigano lentamente in questa magica atmosfera per rientrare uno ad uno nel proprio spazio diventando vivi nel movimento, geniale, unico e nuovo. Veniamo ai premi: alla carriera agli americani Baldessari e Yoko Ono, che dopo secoli è sempre uguale, con i suoi eterni occhiali, con i quali credo vada anche a dormire. Me la ricordo quando abitava nello studio di zia Marta a San Vio, durante una Biennale passata: non è cambiata per niente, devo chiederle la ricetta. Mi sono piaciuti da morire i due tavoli da scacchi tutti bianchi nella sala centrale di Palazzetto Tito pronti per iniziare una partita. La tentazione di giocare è stata grande ma le occhiatacce dei guardiani mi hanno trattenuta dal farlo. Questi scacchi starebbero benissimo al Museo d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro in compagnia della testa di donna in porcellana  di Arturo Martini che mi fa venire gli sgrisoli nella schiena da quanto mi piace. L’opera è custodita nelle sale del piano superiore del Museo appena restaurate.

Arturo Martini, “Fanciulla piena d’amore”, 1913, Venezia Ca’ Pesaro, Galleria internazionale d’arte moderna

arturo martini, “fanciulla piena d’amore”, 1913, venezia ca’ pesaro, galleria internazionale d’arte moderna

A Ca’ Pesaro fin dalla prima Biennale del 1895 sono state donate tutte le opere premiate; mi domando chi sia stato quella testa d’amolo che ha interrotto questa fantastica consuetudine. Basta visitare il Museo per capire quanto ha perso la città.

Emilio Vedova e Renzo Piano


EMILIO VEDOVA E RENZO PIANO


Il museo dedicato a Emilio Vedova dovrebbe essere inaugurato il 3 giugno ai Magazzini del Sale dove l’artista aveva il suo secondo studio.
Ci sono stata un po’ di volte e il casino vi regna sovrano. In questi casi a Venezia i miracoli sono frequenti e mi auguro che si ripetano anche questa volta.
Per quanto riguarda l’informazione per la stampa vi regna un clima da Stasi.
Una voce gracchiante m’informa che il progetto è top secret per i giornalisti: dalla bugia mi salva il bel pezzo di Angela Vettese a pagina 42 del Domenicale de “Il Sole 24Ore”, del 24 maggio.
La voce era uguale a quella di una donna della Stasi di cui ho recuperato in seguito la registrazione e che mi voleva far internare per un articolo scritto sulle occhiaie vuote delle case di Dresda. Avevo scritto delle abitazioni abbandonate, della gente che camminava lungo i muri con le stesse occhiaie perse e che non rispondeva alle domande, delle fabbriche dove cinque operaie destinate a cucire camicie disponevano solo di tre ferri da stiro e di una macchina per cucire che creava le asole sbavate perché gli aghi erano rotti. Per lo smog dovevo girare con la mascherina ma, naturalmente, il riscaldamento dei grigi edifici come il paesaggio erano gratuiti. Tutto ciò contrastava con l’ostentazione dei preziosi gioielli barocchi, grossi sassi colorati del Museo (la Gemäldegalerie Alte Meister), e con la magia della sua collezione… sono persino riuscita a ficcare il naso anche nei depositi! Dopo tutti questi anni i miei occhi ne sono ancora “immagati”.
Per fortuna quando si sono accorti del mio servizio, mi sembra su “Frankfurt Zaitung”, ero già a Bemberg – scampato pericolo.
Ma che in una Venezia del 25 Maggio 2009 si usino gli stessi sistemi mi pare una barzelletta. Grazie Angela Vettese.
Dal progetto mi rendo conto che il museo sarà bellissimo, una specie di carro in movimento come alla galleria di Peggy a New York dell’affascinante amico Kiesler, a cui la struttura essenziale dei saloni aggiungeranno quel senso di magia che le opere dell’artista necessitano. Uno dei saloni era già il suo studio.

Vedova è l’unico pittore che ho conosciuto che è riuscito a creare i giochi di luce e i riflessi dell’acqua del Canale della Giudecca adoperando solo il bianco e nero.

Frequentavo la casa di Emilio e Annabianca, che si affacciava  con un labirinto di altane sulla Giudecca dove lo sciacquio delle onde solleticava sia gli occhi che le orecchie.  Mi sentivo a casa a “sbecottare” pane e soppressa bagnato dal buon Cabernet di Collalto che scaldava la conversazione.
Vedova amava il mio libro delle isole abbandonate e le mie buffe storie. Si divertiva a prendermi in giro perché appena tornata a Venezia dalla Sinistra Piave, dove avevo passato il periodo della guerra, mi divertivo ad attraversare in traghetto il Canal Grande all’altezza della punta della Dogana, per me uno dei punti più sognati di Venezia. Si divertiva a raccontarmi che ragazzina, mentre scendevo dalla gondola, all’arrivo di un’ondata che mi aveva fatto finire in acqua, mi aveva salvata dal bagno prendendomi in braccio; dovevo proprio essere buffa mentre mi divincolavo dall’omone con la barba e i capelli lunghi, in una tutta blu, tutta macchiata, dicendogli “mettimi giù che puzzi!”.

Sono contenta che una cosa veneziana sorga accanto al museo di Pinault, che speriamo sia una cosa bella, ma non digerisco il personaggio che considera questa città con la sua tradizione di gran signora ospitale come un oggetto usa e getta.

In fondo al cuore mi rimane una gran nostalgia per la realizzazione della nave a San Lorenzo, la magica chiesa rinascimentale di Castello che è tutta triste e fredda per aver perso il suo gioiello che l’aveva fatta ritornare viva. So che giace in un deposito, cosa vergognosa perchè dovrebbe tornare a scaldare quelle gelide mura e a rallegrare i veneziani che se la sono quasi dimenticata.

Ho seguito con ironica trepidazione tutto il suo iter, ma come si può immaginare un edificio a Venezia con misure precise, angoli retti e muri non sghimbesci? Il lavoro di Piano e di tutta la sua équipe, a segare, rabberciare e rimettere insieme tutta la struttura per infilarla finalmente nel suo contenitore, era così bello proprio per tutte le sue forme anomale.

E poi  la piattaforma che cantava per conto suo, facendo imbestialire Gigi Nono e immelanconire il Maestro Abbado….
Abbado me lo sono portato alla Corte Sconta, dove sulle tovagliette di carta ho pensato di far danzare i ballerini sulle scalette laterali, coperte di moquette, e far sedere il pubblico sul ponte della nave. L’acustica, la musica e Prometeo hanno fatto rivivere quello spazio addormentato da troppo tempo e ho anche avuto la gioia di recuperare l’amico di sempre, Gianni Berengo Gradin, che ha poi fatto le foto del libro dei giardini.